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lunedì 22 giugno 2015

Timballa di maccheroni e Minne ne Il Gattopardo

A Donnafugata ogni anno il principe di Salina organizzava un pranzo solenne; i ragazzi sotto i quindici anni erano esclusi.
Considerato il fatto che la Sicilia grazie all’unificazione si affacciava all’Europa, i commensali si sarebbero aspettati di iniziare il pranzo con un potage – zuppa di porro, patate, panna.
Quando a tavola arrivò la timballa tutti furono sorpresi, tranne il principe, sua moglie, Angelica e Concetta, figlia del principe. Per motivi diversi.
Concetta non avrebbe mangiato niente comunque, Angelica avrebbe mangiato tutto comunque, il principe e sua moglie perché si aspettavano questo piatto in quanto tradizionale.
Il potage, in quel menù, sarebbe stato segno di cambiamento, ma in una Sicilia immobilista, la timballa è il segno gastronomico che nulla cambia.
La timballa diventa espressione di una forte identità culturale a cui i siciliani sono abbarbicati.


Ne Il Gattopardo viene descritta come una torreggiante timballa di maccheroni in crosta brunita, con fragranza di zucchero e cannella, all’interno fegatini di pollo, ovetti duri, sfilettatura di prosciutto, pollo e tarfufi, il tutto impigliato in una massa untuosa e caldissima di maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.



I dessert del romanzo sono descritti nel capitolo relativo al ballo che avviene nel palazzo del principe di Salina. Su un tavolo sono esposti diversi dolci francesi e uno tipicamente siciliano, le minne di S.Agata o paste delle vergini.
Sono realizzate con pasta frolla, crema di ricotta, zuccata, scaglie di cioccolato, cannella.
Don Fabrizio, tra i vari snobba i dolci francesi – ovvero il nuovo che avanza – e preferisce, anche in questo caso, un dolce tradizionale sinonimo di identità culturale. Sceglie proprio le minne di S.Agata, due, tenendole sul piatto a mo’ di profana caricatura di S.Agata che fu martirizzata con l’amputazione dei seni.

Giorgina D'Amato