Sono qui. Del viaggio non mi sono resa conto, a
cassetta assieme al cocchiere, che il vento mi cancellò le lacrime e non mi
sono accorta né delle strade né delle grida del cavallo frustato, a sangue,
senza ragione.
Perché correre? Di sgarrubbo, dall’ingresso di
servizio.
Sirio, le Pleiadi, l’alcova di Vega, e Giove e
Saturno, gli spingo le parole negli orecchi. Nulla. Sono le vostre stelle... non
è sonno questo. E allora parlo più forte, e piango e le parole si impastano coi
singhiozzi.
Mio principe, ho qui i taccuini e le formule
magiche delle vostre stelle. Mi insegnaste i nomi e io li ripetevo la sera
assieme alle preghiere. Dicevate che il firmamento è immutabile, che le stelle
non appartengono a nessuno. Io senza luce appartenevo a voi. Ecco, tenete. La
mano è inerte, una lieve peluria la ricopre. Ricade e io la prendo e poi la
guido sul mio volto e nella rigidità che avanza il freddo consolida ogni gesto.
Sul mio volto di vecchia, sulla bocca sottile dall’attesa,
sul collo e tra i capelli che erano invidia delle nobildonne. Il seno no, mio
padrone, quello non figliò, perché non c'era uomo che potevo amare. Come siete
piccolo, gigante rannicchiato, rimpicciolito. Saranno le mie le vostre mani.
Adesso state fermo che vi faccio la barba che domani nessuno abbia a dire che
io v'abbia trascurato.
Adele Musso