E la seconda volta che andammo a Rannino Germano non si limitò alla camicia,
tolse le mutande e correva nudo e tirava pietre alle mucche gridando «bisteccone
da panare, venite qua che vi do un morso» e rideva, se la spassava. Io seduta
sulla coperta ad applaudirlo, nessuno dei miei amici era come lui. Un’altra
volta se la prese con un gregge di pecore, le inseguiva a grandi balzi, versi
da strazio: «signorinelle belle, fatevi scopare dal lupo cattivo!» e quelle a
belare. E il maggese, il crinale, la
sulla o i papaveri, i cardi selvatici, ci sarebbe stata pace tra le cime solo
quando veniva il turno delle lucertole - «stai zitta che ce n’è una giurassica»
- le cacciava con steli d’erba a cui faceva un cappio in punta, le prendeva e
le teneva a guinzaglio, mi guardava da bambino che non ha fatto errori nel
dettato ma io a rimproverarlo, libera quella bestiaccia dannata che mi fa schifo;
la lasciava in pace a patto di afferrare me, si tuffava di panza dov'ero
distesa, nudo e sudato - l’odore di chi non si deodora ma neanche puzza - e mi
leccava il collo, mi masticava le orecchie, o mangiava il pane e salame che gli
avevo portato e poi ricominciava, le mani dentro la maglietta a impastarmi, che
a volte spirava vento sulle montagne e ci stringevamo, si divertiva a fiatarmi
addosso, a ricoprirmi e farmi sparire.
E poi le storie, voleva che inventassi vicende di uomini gloriosi e donne
bellissime; attinsi ai romanzi che avevo letto, gli raccontai Madame Bovary e disse «che troia!», gli
raccontai Gita al Faro e disse «che
noia!», gli raccontai Il giorno della
civetta e disse «io l’avrei scritto meglio».
«Tu?»
«Sì, io.»
«Germano, tu sei megalomane.»
Giorgio D'Amato
Tommaso Tomasello
Tommaso Tomasello