Sembra un cinguettio quello che sente, è ancora buio, ma è
sua figlia che sta parlando al cellulare; è appena rientrata. Chissà perché le
madri, quando sono in apprensione per i figli, li rivedono piccoli, addirittura
appena nati.
Oppure è il bruciore, che fa rumore e la tiene sveglia? Decide di prepararle una camomilla, può
ancora approfittare di qualche ora di sonno, ai giovani dormire fa bene. Il
freddo dentro cui si era rannicchiata diventa improvvisamente fiamma e i
pensieri tenuti a bada arrivano precipitosi uno dietro l’altro, come i messaggi
sulla rete che non erano riusciti a passare. Il din don dei ciondoli del lampadario sbattuti
dal vento che passa dagli spifferi si mescola al rumore del motore del frigo
che riparte e lo scroscio dell’acqua della doccia dentro i tubi nascosti nella
parete.
Sono i segnali delle sei. Fortunato, il suo vicino, scenderà fra
mezzora e andrà a mettersi all’angolo della strada, ad aspettare il suo collega
che lo carica sempre sulla sua citroen blu. Qualcuno gli vuole ancora bene,
dopo che sua moglie lo ha lasciato. Esce con le camicie stropicciate, ma
pulite. Il sabato pomeriggio arriva con la sua borsa della spesa carica di
bottiglie. La televisione accesa tutto il giorno. Ogni volta che apre la porta
dell’appartamento ne esce un tanfo insopportabile di soffritto di cipolla e di
carne andata a male. Che nome assurdo! L’unica sua fortuna, le ha detto, è
quella di essere nato vivo e di possedere un DNA più forte della sua volontà. Si
tiene ben ancorato, immerso, dentro il fondo fangoso, in apnea, in compagnia
degli uomini pesce, creature senza polmoni, forse pure senza cuore, posseduti
da una natura incolpevole. Già a quindici anni era destinato a rimanere fuori
da ogni consesso; rubava le collanine alle ragazze e i vinili ai ragazzi per
comprarsi il l’erba. Nessuno che riconosce le sue ragioni.
Era proprio lei, sua figlia, il cinguettio, sta litigando
con qualcuno. La sua voce è pacata ma
scostante, affaticata come una maratoneta. Hai le scarpe strette? No, non ha
più neppure le scarpe, cammina saltellando come sui carboni accesi, mentre si
morde le labbra fino a farsele sanguinare. Piccola, dentro l’urna di vetro
accucciata con le manine sotto il mento, le palpebre bianche e squamose di
pesce. La vede respirare attraverso quella boccuccia di neonata rosa, spellata,
calda, piccola, entra dentro un pugno. Il pugno lo stringe stretto e lo
nasconde nell’incavo, sotto il diaframma fino a toccare le vertebre della
schiena che sta tremando. Ti faccio una tisana? Le chiede da dietro la porta.
Sì, va beh. Invece di dirle: ti faccio una camomilla. Lei avrebbe replicato: la
camomilla prendila tu.
Le tocca stare a guardare, riconoscerle tutte quante le
ragioni, mentre lei si contorce, seduta sulla tavoletta del wc.
Rosa La Camera