Ti ricordi di quella poesia di Thomas? Quella sulla morte.
Avevamo appena preso casa, ti piacque subito, a me no, e non
che si trattasse di stanze o panorami o di balconi più o meno larghi. Sarebbe
stata una casa. A te piaceva, feci in modo che piacesse anche a me. Con sforzo.
Gli amanti passano,
l’amore si salva.
Quella sulla morte che abbiamo ascoltato dal tuo amico che
la leggeva da qualche parte un paio di anni fa – eravamo in spiaggia e volevamo
fare gli intellettuali di circostanza (siamo sempre stati bravi, non a
riuscirci ma a manifestarne le intenzioni).
E poi quella canzone, che quando l’ascoltai la prima volta
pensai che potesse suggellare la nostra unione più di fedi d’oro (quelle che
lanciammo dal cavalcavia). Diceva che eravamo uno, ma non uguali.
Pensavo l’avessi scelta per questo. Poi ho capito: da
qualche parte diceva pure: sei qui per resuscitare i morti?
Ci sono voluti dieci anni e passa.
Quando vogliamo credere in impalcature che non ci sono,
questi errori si fanno.
Quando le impalcature poi cadono, non c’è tubo o raccordo
che non ti finisca sul cranio.
Ad ogni botta ringrazi canzoni, poesie, balconi, sughi,
indicazioni sui tempi di cottura.
Eppure quella casa non mi piaceva. Avrei dovuto dirlo
subito.
Avere tutti i morti davanti.
E intanto la pentola bolle, i rigatoni scuociono, tu
spolveri.
E canti “maledetta primavera”.
E urli Luigi, fai un bocca a bocca a ‘sto cadavere.
Giorgio D'Amato