Mi chiedo cosa mi può fare il giudice inquisitore, il grande
maestro, se non seguo le sue consegne. Criticarmi come è suo solito, se è di
buon umore, smontare tutte le rielaborazioni o fare abortire soprattutto le idee.
Imporre le sue opinioni sempre e comunque e forzarle oltre ogni misura contro
la mia volontà, messa a dura prova rendendola sempre più debole. Convincerti
che hai torto con ogni mezzo lecito e illecito. E poi il suo stuolo di
proseliti che non osa dispiacerlo né contraddirlo; ma come si può accettare un
tale dispotismo?
A pensarci bene avrei fatto meglio a non presentarmi. Avvolta
nel mio plaid a quadri, ciabattando per casa o distesa sul divano non avrei
commesso niente di male. Anzi.
Ha la capacità di suscitare sensazioni spiacevoli non solo su
di me. In un modo o in un altro ne verrò fuori. In fondo deve importarmi più di
me e dei miei scritti che dei suoi giudizi di censore inflessibile e feroce.
Niente da fare. Non posso accettare di vedere svilito il serio lavoro dello
scrivere come se fosse una sfida a chi la dice e la scrive più grossa e
insolitamente audace o impertinente. Satira, ironia pirandelliana, assurdo
ionescano. Mah! Resta sempre tutto da discutere o ridiscutere.
Sono stanca delle parole, delle loro trasformazioni. Giri
viziosi, sviluppi tortuosi attorno ad un’idea, una figura o un vocabolo,
persino un verbo assegnatomi a sorte.
Maria Letizia Mineo