Erano fili neri lunghi e plastificati quelli
che li tenevano uniti, una ragnatela, non una rete di salvataggio.
E adesso? Cosa ne sarebbe stato di loro?
Adesso che la base di quell’impalcatura che avrebbe fatto invidia a un parto
della mente di Renzo Piano, si era spenta, zittita, time out.
Oh, quale emozione per il pubblico pagante,
prima arrivava il parruccone e poi lei, e le ali di gabbiano disegnate sopra
gli occhi, cosa sarà stato morire con due punti interrogativi sulla fronte?
E adesso? Adesso le bestiole dopo un primo
momento di confusione avevano compreso che non avrebbero più udito la vocina
con l’accento romagnolo, quel cinguettio che ammoniva, accompagnato da una mano
con lunghi artigli, perché lei era strega davvero e la voce era un falso come
tutto il resto. Al circo non si ama, si frusta. Il circo non profuma, puzza.
Si ritrovarono d’improvviso in un circo muto,
silenzioso, dove anche i cattivi odori sembravano depositarsi stanchi tra la
sabbia e lo sterco. E in quel silenzio ebbero tempo e modo per accusare se
stessi d’ignavia e di viltà. Capirono che avevano rinunciato tanto tempo
addietro e si erano illusi di essere amati perché i colpi di frusta arrivavano
da una mano imbellettata e da una voce suadente, ma in quella voce c’erano la
lama sul ghiaccio, lo scudiscio sul cavallo con il pennacchio, la paura della
vecchiaia. Bisognava riscattarsi, ritrovare il coraggio; l’elefante avrebbe alzato
la zampa e usato la proboscide per stritolare, il leone avrebbe chiuso le fauci
sulla testa dell’omino, certo che un animale drogato non è un animale
pericoloso.
Non avrebbero mangiato, avrebbero finto di
ingoiare il cibo, avrebbero barcollato senza essere drogati, erano abituati da
anni di allucinogeni e dalla noia, dagli sguardi freddi e morbosi. Sarebbero riusciti
a scrollarsi di dosso le sbarre e la veste del ridicolo?
Lo spettacolo del 24 dicembre era vicino, e
sarebbe stato grandioso, diverso, adesso che l’impalcatura nera giaceva in
fondo a un cumulo di terra e non andava in giro con quei grandi vestaglioni rosa
confetto, le cose sarebbero cambiate, non c’erano più il ragno e neppure la
ragnatela.
I più inferociti erano i barboncini,
spruzzati con vernici tossiche per fare sparire qualsiasi imperfezione del loro
mantello, avevano assorbito il veleno. Le più infide le scimmie, così simili all’uomo,
di loro c’era poco da fidarsi. Stupida donna, ripeteva il cane più vecchio, i
cani non sanno odiare, e lei è riuscita a non farsi amare, insieme a tutti quei
ragazzini urlanti che ci prendevano in giro con i loro genitori annoiati e
pretenziosi. Il Natale è solo lavoro in più per noi bestie.
I custodi attribuirono il silenzio degli
animali, alla tristezza che attanagliava il campo, allo stupore per la morte
della maitresse, qualcuno rideva nell’angustia del suo camerino viaggiante.
Qualcun altro rubò i cuscini a forma di cuore dalla roulotte color dell’amore e
li sventrò. L’invidia non muore, si trasforma in gommapiuma.
Era stabilito, sarebbe accaduto dopo il numero
del cerchio di fuoco, quando la tensione sale che neanche coi trapezisti si
prova più nulla, tanto se cadono c’è la rete.
Si erano esibiti tutti ed erano pronti dietro
le quinte per la sfilata finale, per la pagliacciata generale.
Il segnale lo diedero le candide colombe che
sfuggite alla nuova addestratrice (Moira era insostituibile) si collocarono al
centro del tendone in alto abbastanza che tutti potessero vederle, in una
formazione che nessuno aveva loro mai insegnato.
Le tigri capirono che era il momento e
superato il cerchio di fuoco, non girarono per rientrare attraverso le fiamme, bensì
si avventarono sui domatori, le cui fruste con le scariche elettriche, non
funzionarono, le scimmie sapevano il fatto loro. La folla non comprese subito,
perché soddisfare il gusto dell’orrido, è diventato difficile, qualcuno disse è
un gioco, quello è pomodoro.
I clown trasformarono la loro maschera,
furono i primi a comprendere.
Quando il tendone fu strappato da una schiera
di animali inferociti, la folla si sollevò come corpo unico, la musica cessò di
colpo per lasciare spazio al suono della paura, finalmente sotto il tendone
sfilavano emozioni non addolcite da zuccherini nascosti nei palmi, sfilava
l’emozione carnale. Le scimmie si avventarono sulla gente, i grandi pappagalli
colorati aggiunsero striature rossastre al loro abito esotico, i cani ritrovarono
l’istinto del lupo, ma furono gli elefanti intorpiditi da anni di gonnellini e
pennacchi a caricare il pubblico barrendo da far tremare le panche e lo
scheletro del tendone. I cavalli si pezzarono di rosso e fu l’inferno; qualcuno
andò a cercare le carabine armate di narcotico, era troppo tardi, il panico
aveva fatto il resto. Madri abbandonarono i figli, anziani caddero tra una
panca di legno e l’altra scaraventati giù da giovani rapidi e impietosi. Il
fiume delle bestie aveva travolto tutto. Qualcuno prima di essere incornato dal
rinoceronte bianco, riuscì a leggere la parola che le colombe bianche avevano
composto in aria, ormai, anagramma di Moira.
Adele Musso