“Non ho più voglia di cercarlo”
dissi “ho fatto due volte il giro dell’isolato e anche un po’ più in là.”
Agnese teneva il guinzaglio con
una mano e l’osso di gomma nell’altra, mentre coi gomiti spostava i rami più
bassi degli alberi del parco; aveva le ginocchia sporche di fango e gli occhi
umidi.
Non riusciva a guardarmi: sapeva
che non doveva farlo; e non lo fece.
“Non dovevi lasciarmelo, te lo
avevo detto.”
Sinceramente, non ero affatto
dispiaciuto di questo accidente provvidenziale. Nel pomeriggio, quando si era
fatto buio, avevo smesso di trafficare con le mie canne da pesca e avevo
richiamato il cane, un paio di volte, per evitare che continuasse ad abbaiare
infastidendo le auto sul viale. Solo in quel momento mi ero reso conto che non
lo sentivo da un po’ di tempo.
Poco dopo, Agnese era rincasata e
glielo dissi, netto, mantenendo la calma. Non avevo nessuna voglia di litigare,
per quel cane rognoso che dovevo sempre cacciare a calci dal divano, e mi
costrinsi a cercarlo con Agnese ancora per un po’.
Francamente, avrei preferito
trovarlo schiacciato e sanguinante. In questo caso avrei inventato una buona
scusa (forse neanche tanto buona) e l’avrei convinta, Agnese; da me l’avrebbe
accettato. Tutto sarebbe stato semplice, come bere l’ultima scolatura di scotch
dalla bottiglia.
“L’hai cacciato tu, il mio povero
Ralph. Dimmi dove l’hai abbandonato, Rudy, ti prego, andiamo a prenderlo.”
Aveva la voce stridula del
rimprovero piagnucoloso; non si rassegnava a tornare a casa e tremava di
incertezza.
La guardai attraverso il fumo
della sigaretta.
La strada era buia e la sua
torcia non era più sufficiente a diradare l’ombra degli alberi nel sottobosco.
“Torno a chiamare aiuto” dissi.
Agnese non mi ascoltò,
inoltrandosi nel fitto del parco e sguazzando nel fango con la sua stupida
torcia inutile.
Tornai pigramente nella rimessa per farmi una frittata, per occuparmi delle mie canne da pesca.
FAbrizio Sapio