Non so se lo avrei chiamato padre o madre, non so neppure se avrei avuto più voce. Adesso la neve sui davanzali ovattava i suoni e gli uccelli avevano perduto il nido.
Lasciavamo impronte sulle
strade, minuscole, io ero come un cristallo di ghiaccio, invisibile all’occhio,
e non ricordavo di avere un nome o se l’avessi soltanto sognato. Così il gesso
si incrinò e mi spezzai le unghie, al cuore ci avrebbero pensato i cattivi
maestri e i corvi che stanno su entrambe le spalle.
Dove sarei mai potuta
andare, senza un nome, una foto, un ricordo netto? Sì, forse avevo soltanto
sognato. E fu questa la ragione per cui mi misi a correre fino a non avere più
fiato e a ricoprire il viso di brina che bloccava i miei lineamenti in un’età
immobile. E fu per questa e almeno altre diciassette ragioni che tutto mi
incuteva paura. Quando frantumarono le mie certezze sapevo che non ne avrei
avute altre, e fui certa che anche mia madre avesse scordato il mio nome perché
non aveva avuto più occasione di pronunciarlo. Ne avrei inventato uno per un sentiero,
un ponte, un ramo, per il bordo di una fontana ghiacciata.
Cominciavo a rammentare altre
parole, altre voci nella penombra quando non distratta dai ricordi, né dai dissapori
umani potevo essere qualcuno.
E allora squadernavo fogli,
li strappavo, venivano via fitti e scuri come foglie secche, e li riempivo come
si riempiono barattoli di monete che un giorno comprerai un biglietto per uno
spettacolo, un viaggio, ma alla fine della pagina quale nome avrei scritto?
Il primo ricordo era una
valigia blu, e io là a guisa di bagaglio, di abito ripiegato, avrei potuto
essere qualsiasi cosa, ma mi avevano mentito.
Che nome dare alla neve e a
una promessa? Intuivo che l’amore poteva stare sotto le
suole, tra i capelli raccolti nel berretto, nelle braccia spaurite di un volto
nuovo e austero.
Così in piedi, oppure sdraiata
a pancia sotto, fino a non avere più la forza di pensare, cercando di
scrollarmi di dosso quei corvi e la curiosità per un luogo che non mi avrebbe
salvato, né dalle ombre dei cancelli né dalla carta vetrata. No, non avevo sognato,
sentivo la musica, le luci attraverso i vetri, e la gentilezza io sapevo che esisteva,
incuneata tra i denti di una cerniera, tra i cardini di una finestra che
qualcuno avrebbe aperto, prima o poi.
Adele Musso