Alena
quel mattino era sgusciata dal letto prima che la sveglia le ricordasse che era
giorno di scuola. Aveva dormito poco e male. Glielo diceva sempre la madre che
troppo gelato raffredda lo stomaco, ma lei, golosa, non si curava degli effetti
collaterali se non quando si svegliava nel cuore della notte per i crampi e con
uno strano sapore metallico sul palato.
Abitavano
in campagna da meno di un anno, un grosso sacrificio in termini di sonno e
amici, quando stai fuori città e hai appena tredici anni sei prigioniero degli
spazi liberi dei tuoi genitori o se sei fortunato e hai un nonno che non si è
ancora beccato l’Alzheimer, puoi usarlo sporadicamente come autista.
“Finalmente
liberi dalla babele condominiale, vuoi mettere?” Aveva esordito la madre per
convincerli che era la scelta migliore. In realtà adesso correva più di prima
ed era isterica alla terza.
Fa
davvero bene il contatto con la natura? Me lo aveva chiesto con voce bassa
alzando per un istante lo sguardo e offrendomi il nocciola liquido degli occhi.
Poi era ripiombata nel ricordo.
Era
scesa in cucina e aveva bevuto avidamente un bicchier d’acqua. La casa dormiva
e il silenzio era denso come miele appiccicoso e scuro, Alena avrebbe provato questa
sensazione per i giorni a venire senza sapere bene come descriverla.
L’acqua
le diede i brividi. Raccontò di essere uscita perché non aveva più sonno e
voleva vedere l’alba. Forse due passi avrebbero placato il brontolio dello stomaco,
dove pareva sbattessero ali di farfalle di ferro. I mali dell’adolescenza, mal
di pancia, mal di testa.
Riferì
anche che in quelle ultime settimane pareva ne soffrissero tutti in famiglia ma
che se lei si azzardava a parlare del proprio era zittita seccamente. “Tu che
pensieri hai? Sei solo una ragazzina, pensa a studiare”.
Il
padre più cupo e teso del solito, scuro come l’abito che indossava per recarsi
al lavoro, spiegazzato in volto come quello. Ecco cosa le ricordava il padre: un
giornale usato, letto e riletto, che qualcuno avrebbe finito per buttare via.
Era
stato una sorpresa la sera prima quel gelato acquistato senza un motivo
particolare.
Alena
per un attimo ci aveva visto un barlume di normalità, ma lui non ne aveva preso
neppure un cucchiaino per buona pace della ragazzina che invece aveva raddoppiato
la propria dose.
Chissà
dove erano finiti gli uccelli, le piaceva indovinare i disegni che facevano in
cielo, piccoli come quelli della camicia da notte che indossava, l’aveva gettata
via, il motivo le era rimasto impresso nella retina e anche quando chiudeva gli
occhi, continuava a vedere coniglietti azzurri.
Nel
giardino la madre coltivava fiori, a lei invece il giardino piaceva poco
ordinato, le cose, venivano su. Adorava gli alberi, i rami che se
ne fregavano delle direzioni e le provavano tutte, suo padre le aveva promesso un’amaca
per quell’estate, avrebbe trovato posto tra due grandi alberi vicini. Leggere
dondolandosi, che goduria.
Ma
quel mattino notò che c’era qualcos’altro che dondolava e non era né un’amaca,
né un’altalena. Il bicchiere le cadde giù di schianto come a chi non s’apre il
paracadute dopo un lancio, l’acqua sulle caviglie.
Non
gridò, corse che non lo capì neppure che già gli aveva afferrato le gambe, che
l’odore delle scarpe di cuoio buono le risalì su per le narici, che le lacrime
le strozzarono la gola e le inzupparono gli occhi.
Non
si era neppure spogliato, aveva ancora indosso il suo abito sgualcito, pareva
più largo del giorno precedente.
Raccontò
che aveva visto farlo in televisione, dovevi sostenere il peso, non lasciare
che il corpo penzolasse. Evitare che l’ossigeno non affluisse al cervello. Gli
occhi non li avrebbe più scordati erano fissi su di lei vitrei, quasi fuori
dalle orbite, era certa che non la vedessero neppure.
Le
sue scarpe, ne parlò ripetutamente in seguito, i lacci ben stretti, morbide,
costose, non poteva fare a meno di guardarle.
Le
mani piccole e le braccia sapevano che ce la potevano fare. Lei no. Abbracciò
le gambe e andò avanti e indietro per mantenere l’equilibrio per beffare la
morte. La vista offuscata dalla fatica. Padre e figlia un immenso dolore
oscillante, come le lancette di un orologio impazzito, il batacchio di una
campana che stordisce. Alena gridò e fu quello che salvò suo padre, la madre
tirata giù da quell’urlo li trovò abbracciati.
Lo salvarono insieme.
Le
scarpe, i pantaloni tristi, dei grandi lividi sulle braccia oltre all’odore del
cuoio, un’amaca che Alena non desiderò più, furono quelli i segni che lei non
seppe leggere nel volo impazzito di un mattino di primavera.
Adele
Musso