‘U zu Totò, ogni domenica mattina, piovesse,
tuonasse, o addirittura nevicasse, a meno che non fosse costipato o con il
femore rotto, lui doveva mangiare un'arancina, e anche due se la sua squadra
giocava in casa, perché diceva che portava bene. Ma, mica una arancina normale,
lui mangiava quelle da mezzo chilo a salire, e con la carne le voleva, anzi con
il capoliato, che era uomo di salde tradizioni, e quando una volta aveva
sentito chiedere da un catanese di passaggio un arancino, in tre lo avevano dovuto tenere, e il catanese se ne era
dovuto andare di corsa. L'arancina è fimmina, e come la fanno qui, è una bomba.
Zu Totò, ma che fu? Disse uno, mentre u zu
Toto, bocca ancora semi spalancata, e gli occhi sbarrachiati, non riusciva ad
articolare parola, vide fare un secondo balzo e un tuffo nell'olio bollente. Tradimento! Gridò
l'uomo privato del suo bottino. Aiutatemi, aiutatemi. L’arancina è indemoniata!
L'arancina dopo due o tre giri che sembrava
una nuotatrice di nuoto sincronizzato, saltò fuori come sputata per atterrare
sul banco, dove altre sue compagne aspettavano di friggere, si dette una
scrollatina e si liberò, prima della crosticina dorata, che qui nessuna
arancina si spaccava, poi fece scivolare l'uovo e infine il latte, (che era un
trucco del mestiere). Rimase così, col riso di fuori per alcuni istanti, un po'
vergognandosi che si era abituata al suo abitino croccante, poi accadde
l'impensabile: i grani di riso cominciarono ad allentarsi come dei mattoncini
senza collante, scolorirono, si atomizzarono per esplodere come una supernova,
i chicchi finirono dappertutto per poi radunarsi come calamitati sul tavolo; il
capoliato, che era il nucleo pulsante, si trasformò in un animale che aveva la
testa di vitello e il posteriore di maiale, perché il ragù si faceva metà e
metà, i piselli da mosci e sfatti, riacquistarono vigore e turgore, e smarriti
finalmente liberi dal sugo cominciarono a guardarsi intorno in cerca del
baccello, ma nella spazzatura alcuni videro una scatola con scritto pisellini
primavera surgelati.
I chicchi dal tavolo furono risucchiati
dentro un pentolone d'alluminio dove Fofò di solito faceva il risotto, il bollore,
svanì, l'acqua si asciugò, il vino evaporò, e la cipolla ritornò intera, si
spense anche il fuoco. Un cubetto, (un dado?) si riavvolse nella carta
argentata e sparì in una scatolina su cui una tipa, che somigliava a Nicoletta
Orsomando, sorbiva un cucchiaio di brodo.
I chicchi finalmente asciutti cercarono la
scatola sottovuoto, quella dove c'è scritto 100% italiano, ma siccome il
vecchio panellaro era andato in pensione, il figlio il riso ora lo comprava dai
cinesi, e si giustificava con se stesso, “il riso è originario dalla Cina, e
allora io sto rispettando la tradizione. L'arancina è d'origine cinese. I
chicchi compresero allora che il viaggio di ritorno sarebbe stato lungo e
travagliato, non erano sicuri di riuscire a sopportare il fuso orario, loro al
massimo conoscevano il burro fuso, e non si volevano neppure imbarcare come
clandestini. Anche loro cominciarono a gridare Aiuto, aiuto.
L’aran cin
Si narra che nel paese della grande muraglia
in una città bagnata dal fiume giallo, nella regione chiamata Aran cin regnasse
un sovrano innamorato della neve.
In realtà in quella regione che nevicasse era
davvero difficile, il clima era temperato e l’ultima neve si era vista durante
la dinastia Shang.
Il sovrano era parecchio capriccioso, e
infatuato di racconti leggendari su Marco Polo, fantasticava di una città dove
la neve cadesse tutto l’anno, le case si specchiavano nel ghiaccio, i tetti
fossero ricoperti di glassa gelida e nuvolette di fiato accompagnassero i
passanti.
Fu così che in mancanza di neve fece
tappezzare le case e i tetti del suo piccolo regno di riso. Il riso veniva
fatto cuocere in enormi pentoloni fino a raggiungere una consistenza collosa,
di modo che poi si attaccasse alle cose così come si fa con i manifesti.
L’attacchino del riso era un mestiere molto ambito. Tutto aveva una consistenza
gommosa e nivea. Volle anche dei pupazzi di neve di riso in bella mostra
davanti l’ingresso del suo Palazzo.
Il popolo era obbligato a coltivare il riso e
a patire la fame dovendolo cedere per soddisfare il capriccio del sovrano.
Nella città di Aran cin in una casa molto
povera abitavano una bambina molto magra, uno stecco di vaniglia e la nonna,
vivevano di quel poco che l’orto offriva e del latte di una capra dispettosa.
La bimba, chiamata Va ni glin, la notte aveva l’abitudine di sgattaiolare fuori
quando tutti dormivano, e rubare le teste agli omini di neve-riso. Aveva
scoperto che quelle rotondità passate nel latte di capra e poi fritte nell’olio
bollente erano buonissime.
Adele Musso